15
Ottobre 1967, solita Domenica autunnale a Torino, una leggera nebbia aleggia
per le vie e le strade sono colme di auto che smuovono il traffico
post-partita. I granata hanno appena stravinto contro la Sampdoria per 4-2, e
hanno lasciato i propri tifosi con la convinzione di divertire quell’anno, che
tra l’altro terminerà con la vittoria della Coppa Italia. Come solito, i
giovani giocatori lasciano il ritiro per andare a godersi un gelato, simbolo
dell’ora di libertà concessa dalla Domenica sera. Ecco che però il fato
colpisce…
I granata
erano convinti che fosse l’anno del riscatto, 16 anni dopo la tragedia di
Superga: Combin forniva forza e aggressività in attacco, Agroppi in mezzo arava
il campo sostenuto dal suo “spirito toro”, Cereser, Poletti e Puia componevano
il muro difensivo, in porta c’era Vieri, imponente numero 1, ma sulla fascia
c’era un ometto, odiato dalla società per il suo modo di fare, ma insieme al
pallone formava una coppia come Baudelaire e una biro o come Hendrix e la sua
chitarra. Era soprannominato Calimero perché era piccolino, simpatico ai tifosi
più anziani, perché con lui si vinceva e ci si divertiva. Gigi sembrava non
avere scarpini perché correva in modo leggero, quasi innaturale, così com’era
il suo tocco, fine e delicato, perché voleva mantenere una speciale amicizia
con il pallone. Non era sgarbato, in niente, era solo diverso. Ascoltava i
Beatles, si vestiva come un “hippie” e lasciava capelli e barba lunghi.
“Pettinati”
gli diceva Edmondo Fabbri, allenatore della Nazionale italiana, “se no col
cavolo che ti porto in Inghilterra”… e Luigi, detto Gigi dalla madre perché
fisicamente più piccolo di suo fratello e sorella, sorrideva, perché sapeva che
alla fine l’aspetto non bastava a non fargli prendere il volo per Londra (evitabile
vista la figuraccia ai Mondiali ’66 dell’Italia).
Si sa che i
comaschi non sono gente che dà nell’occhio, si fanno i fatti loro perché i
milanesi sono superiori. Gigi era così, non voleva il centro dell’attenzione,
voleva semplicemente separarsi da ciò che gli altri gli ordinavano. Odiava
l’oppressione, come può essere la marcatura di Rosato o Guarnieri, perché lui
voleva liberarsi come una farfalla, prendendo palla, puntando un qualsiasi
terzino, come Facchetti, saltandolo, si accentrava, ne saltava altri due,
accarezzava la palla con l’indice del suo magico destro, la accompagnava nel
sette della porta, e faceva perdere l’Inter di Herrera dopo 3 anni.
Era bello da
vedere per chiunque amasse il calcio, tifoso o avversario, tanto da far
ammettere a Burgnich:”Quando Gigi mi puntava io mi innamoravo per un attimo dei
suoi movimenti e lo accompagnavo come una signora in area”.
Una farfalla
è tanto bella quanto fragile: in campo nessuno lo prendeva perché troppo
rapido, così veloce che il destino decise di fermarlo a soli 24 anni. Tornando
al 15 Ottobre 1967, si vede Gigi insieme a Poletti attraversare Corso Re
Umberto per arrivare nel tanto amato bar, per prendere il gelato al pistacchio
che faceva raggiungere Siracusa con un morso, quando nel traffico sopraggiunge
colui che 33 anni dopo diventerà il presidente dell’AC Torino, Attilio Romero,
che per puro caso sbatte contro il corpicino di Gigi, ultimandoli l’esistenza
fino alla sera, quando scompare tra le leggende del pallone.
“Gigi Meroni è stato tra i simboli
di un'epoca. È stato il simbolo di una certa (bellissima) idea di calcio. Per
questo oggi il suo ricordo giganteggia. Per questo nessuno oggi immaginerebbe
più di raccontare l'Italia degli anni sessanta, non solo calcistici, senza
nominarlo. “