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giovedì 21 maggio 2015

LA FARFALLA COL NUMERO 7

http://a1.ec-images.myspacecdn.com/images01/7/7bb3457e78b8f00e4d7090bcab0e0532/l.jpg15 Ottobre 1967, solita Domenica autunnale a Torino, una leggera nebbia aleggia per le vie e le strade sono colme di auto che smuovono il traffico post-partita. I granata hanno appena stravinto contro la Sampdoria per 4-2, e hanno lasciato i propri tifosi con la convinzione di divertire quell’anno, che tra l’altro terminerà con la vittoria della Coppa Italia. Come solito, i giovani giocatori lasciano il ritiro per andare a godersi un gelato, simbolo dell’ora di libertà concessa dalla Domenica sera. Ecco che però il fato colpisce…
I granata erano convinti che fosse l’anno del riscatto, 16 anni dopo la tragedia di Superga: Combin forniva forza e aggressività in attacco, Agroppi in mezzo arava il campo sostenuto dal suo “spirito toro”, Cereser, Poletti e Puia componevano il muro difensivo, in porta c’era Vieri, imponente numero 1, ma sulla fascia c’era un ometto, odiato dalla società per il suo modo di fare, ma insieme al pallone formava una coppia come Baudelaire e una biro o come Hendrix e la sua chitarra. Era soprannominato Calimero perché era piccolino, simpatico ai tifosi più anziani, perché con lui si vinceva e ci si divertiva. Gigi sembrava non avere scarpini perché correva in modo leggero, quasi innaturale, così com’era il suo tocco, fine e delicato, perché voleva mantenere una speciale amicizia con il pallone. Non era sgarbato, in niente, era solo diverso. Ascoltava i Beatles, si vestiva come un “hippie” e lasciava capelli e barba lunghi.
“Pettinati” gli diceva Edmondo Fabbri, allenatore della Nazionale italiana, “se no col cavolo che ti porto in Inghilterra”… e Luigi, detto Gigi dalla madre perché fisicamente più piccolo di suo fratello e sorella, sorrideva, perché sapeva che alla fine l’aspetto non bastava a non fargli prendere il volo per Londra (evitabile vista la figuraccia ai Mondiali ’66 dell’Italia).
Si sa che i comaschi non sono gente che dà nell’occhio, si fanno i fatti loro perché i milanesi sono superiori. Gigi era così, non voleva il centro dell’attenzione, voleva semplicemente separarsi da ciò che gli altri gli ordinavano. Odiava l’oppressione, come può essere la marcatura di Rosato o Guarnieri, perché lui voleva liberarsi come una farfalla, prendendo palla, puntando un qualsiasi terzino, come Facchetti, saltandolo, si accentrava, ne saltava altri due, accarezzava la palla con l’indice del suo magico destro, la accompagnava nel sette della porta, e faceva perdere l’Inter di Herrera dopo 3 anni.
Era bello da vedere per chiunque amasse il calcio, tifoso o avversario, tanto da far ammettere a Burgnich:”Quando Gigi mi puntava io mi innamoravo per un attimo dei suoi movimenti e lo accompagnavo come una signora in area”.
Una farfalla è tanto bella quanto fragile: in campo nessuno lo prendeva perché troppo rapido, così veloce che il destino decise di fermarlo a soli 24 anni. Tornando al 15 Ottobre 1967, si vede Gigi insieme a Poletti attraversare Corso Re Umberto per arrivare nel tanto amato bar, per prendere il gelato al pistacchio che faceva raggiungere Siracusa con un morso, quando nel traffico sopraggiunge colui che 33 anni dopo diventerà il presidente dell’AC Torino, Attilio Romero, che per puro caso sbatte contro il corpicino di Gigi, ultimandoli l’esistenza fino alla sera, quando scompare tra le leggende del pallone.

Gigi Meroni è stato tra i simboli di un'epoca. È stato il simbolo di una certa (bellissima) idea di calcio. Per questo oggi il suo ricordo giganteggia. Per questo nessuno oggi immaginerebbe più di raccontare l'Italia degli anni sessanta, non solo calcistici, senza nominarlo.